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Tu non lo sai da dove vengo

Catania
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Tu non lo sai da dove vengo

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C’è qualcosa di strano, di molto particolare in questa città quando si fa sera e scende il buio. Tutto si fa nero. Non scuro, non buio. Di più. È come se il colore nero fosse una sorgente di ruvido impasto che avvolge tutte le cose, persino l’aria. Non è cupo, non proprio, non mette allegria, è vero, ma non è qualcosa di luttuoso o menagramo, no. Il nero ha molte gradazioni e livelli di sfumature, dal caldo opaco delle pietre laviche dei palazzi barocchi del centro a quello freddo e lucido dell’asfalto delle periferie di Barriera o Picanello. Il nero della circonvallazione è umido o sabbioso a seconda delle stagioni. Il nero della cittadella universitaria è molecolare, quasi atomico. Il nero del mare, visto dalla strada che porta a Ognina, qui, è pulsante, minaccioso come il canto di una sirena, quello
visto dal Porto commerciale è un nero limaccioso, che invischia l’occhio nel sonno o in una fosca libidine sensoriale. Tutti dicono e pensano che Catania sia la città della pietra nera, pietra lavica; di giorno, sotto il sole sfavillante, il centro storico è il simbolo di una città che si fonda su mura e pietre composte di solida cenere rappresa. Il non essere che si fa sostanza dura, persistente. Ma non è questo il nero della città, il grande segno di questo colore divorante e vitale allo stesso tempo è quello notturno. Nasce dall’alito non del vulcano, ma dell’enorme Ombra del vulcano che scivola sulla città dall’alto e dal respiro abissale del mare che la fronteggia. Si fondono e provocano un effetto ottico subliminale, un inquietante dominio abissale sullo spirito. Se ci si ferma a pensarci è spaventoso. Perché ti costringe a immergerti nel colore della profondità. A chiederti  incessantemente il perché dell’esistenza. Credo sia per questo che i catanesi si muovono sempre, sono iperattivi, apparentemente superficiali, obliqui, fingitori bizantini persino quando sono pigri, s’illudono così di sfuggire a quel nero che li richiamerebbe ad un memento insopportabile, ogni notte della loro vita, ogni giorno serve a stornare l’attenzione, a fingere d’essere qualcos’altro in qualche altro luogo che non esiste, se non nella loro disperata immaginazione. E la notte ogni volta ritorna a smentirli. Ma loro la fuggono dormendo o vegliano girando come trottole da una cena a una festa, da una putìa a un chiosco, una corsa in macchina o in moto, una scappata ad Aci Trezza o a Taormina in discoteca, per scampare al pensiero dell’impermanenza che quel colore, quel nero catanese, unico e implacabile gli imporrebbe. Questa non è la città dei Gattopardi accasciati, cinici e malinconici ma quella dei Viceré, cinici anche loro ma agguerriti, schiavi del piacere e del vizio, melliflui e goduriosi, sempre attanagliati dall’ansia vitalistica che li distrae dal pensiero della morte e del giudizio. Qui si generano mostri o grandi artisti che fuggono. E quando tornano, se tornano, si bruciano e  si spengono. Nulla è puro qui. Forse i bambini, ma per poco, per troppo poco. Tutto si corrompe. Tutto.

Una frenata per scansare un vecchio barcollante. Poi la richiesta d’essere accompagnato. E sale a bordo. Vecchio, puzzolente, smemorato, esigente, bizzoso. Così comincia il lungo viaggio del protagonista, a bordo della sua vecchia Renault Clio, per accompagnare il suo passeggero verso un indirizzo introvabile, attraverso la città e la memoria, perdendosi continuamente, alla ricerca di brandelli di vita passata, di spiazzanti apparizioni e sparizioni, mentre il vecchio sembra sempre più delirante eppure consapevole e svela di sé dettagli che lo rendono affascinante e manipolatore. Catania e le sue ombre, le sue strade e contraddizioni, è l’altra protagonista sullo sfondo, sempre presente come un’enorme sciara emotiva. Fino alla notte sul mare oscuro, fino alle falde dell’Etna, nell’ora ultima, l’ora obliqua tra il buio e la luce, in un finale che azzera e suggerisce un nuovo inizio.

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