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Barba Tonin
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Barba Tonin

10081 Castellamonte (To)
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Barba Tonin

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E invece lui continuava a fare sòcule.
Caparbio. Lento. Tranquillo. Indossava il grembiule di pelle marrone. L’ampia tasca raccoglieva il fazzoletto da naso insieme a minimi attrezzi e qualche truciolo che per caso vi si era infilato. La barba era sempre un po’ lunga come se non avesse mai tempo di farla – lui che di tempo ne aveva tanto. Senza più Caterina.
Si lustra gli occhialini rotondi con la montatura in metallo e una lente rappezzata dal cerotto. Poi si avvicina ai vetri della porta-finestra trascinando con sé sgabello e deschetto da lavoro. Prende una sgorbia. Prima di cominciare si attarda a guardare fuori. Lungamente con gli occhi appena socchiusi in controluce. Passava in rivista l’orto umido di rugiada davanti al locale al pian terreno – che gli serviva da laboratorio – mentre la  bottega antistante si affacciava sulla strada principale. A san Grato lo conoscevano tutti: Tonin. Il ciabattino. Apriva i battenti delle persiane del negozio e – a grossi chiodi –  appendeva fuori le paia di zoccoli accoppiati con una cordicella. Esposti  in bella vista. Perché Tonin aveva il  senso estetico che regala la lentezza. Che poi – forse-  è la stessa cosa della saggezza e non si elogia mai abbastanza.
Gli avevano fatto pressione – i figli – perché ormai gli zoccoli di legno fatti da lui a mano non li comprava più nessuno e che smettesse. Faccia  qualcosa di più redditizio. Compri direttamente dal calzaturificio le scarpe superga  e gli stivali di gomma. Ma lui – che era diventato un po’ sordo con l’età – forse da quell’orecchio davvero non sentiva. E non risponde. Lascia dire. Che si sbraccino pure. Lui continua a fare sòcule. Lentamente. Tranquillamente. Soddisfatto.
Palpava ogni singolo pezzo di legno con deferenza. Lo percuoteva leggermente. In ascolto di ogni minimo scricchiolio che potesse rivelargli l’anima segreta delle venature e dei nodi. Il cuore del tronco. Forse il cuore stesso dei boschi da cui proveniva. Era ispirato. Intorno non esisteva altro.
Tonin era un semplice. Di quelli che ne trovi pochi e devi cercarli con il lanternino. Un guru. Un illuminato. Perché i toccati da dio sono grandi anime nascoste in uomini puri come colombe. Scendeva dalla montagna. Da giovane povero è emigrato nella bassa. Come contadino di pianura ha imparato ad arare giornate di campi di meliga e di girasoli. Ha  sgravato vacche e allevato – per il padrone – i vitelli da ingrasso da vendere alla fiera del santo. Ha usato zoccoli di legno per non affondare nella pàuta. Contadini – che quando vanno in città gli gridano con disprezzo: ecco che arrivano gli  zoccoloni. Scarpe grosse .Cervello fino. E lui il cervello non l’ha lasciato in montagna. L’ha portato con sé. In montagna ci ha lasciato il cuore. Ai boschi. Al silenzio. Alla chiesa sotto il monte dove è stato battezzato e dove ogni mattina andava a ricevere l’ostia… t’adoriam ostia d’amor…l’ostensorio raggiato e raggiante…il turibolo… l’incenso. E’ tutto così bello. E la bellezza è il segreto del mondo. La processione alla Madonna della montagna. Si mangia e si beve. Cosa c’è di male a fare festa e a divertirsi dopo la messa. Siamo esseri umani e il sangue scorre nelle vene. La folla che arriva da tutte le parti. Caterina luminosa in mezzo al prato. E’ un uomo di fede Tonin.
Fu tra tutta quella gente colorata  durante una di quelle ricorrenze – credo – che decise di lavorare il legno. Legno alberi  alberi boschi  boschi montagna. Montagna: tutta la sua vita. Stabilì che avrebbe fatto zoccoli perché li conosceva bene. Ne aveva sentito tutti i difetti indossandoli per lungo tempo. Le gibbosità e le schegge mal rifinite pungevano anche attraverso i calzettoni spessi. Di lana grezza con i talloni rinforzati da pezze di fodera da materasso.
Cominciò quasi per gioco. Stupito e anche timoroso di  prendere tra le mani un ciocco vivo. Sì. Anche il legname ha la sua anima. Questo ho imparato da lui. E’ sacro. E’ un miracolo e va avvicinato con rispetto.Il divino è materia. Tutta la creazione. Dentro un pezzo di legno.
Ogni zoccolo era un pezzo a sé. Ogni paio un prodotto unico e irripetibile. Capolavori di fino. Come fina fina era l’ultima  carta vetro per le rifiniture. Un segreto. Tecnica come poesia.
Tonin era un artista. Cos’è l’arte se non il mestiere totale? Vita  immagine  forma rinchiusa che si libera?
Amore.
Amore.
E ancora amore.
Amore del tutto.
Quella marcia in più che li aveva uniti fin dal primo guardarsi. Che aveva fatto di Tonin e Caterina un marito e una moglie. Che aveva generato i loro figli maschi e la piccola Maria ia ia come la canzonavano i fratelli maggiori per farla arrabbiare. I suoi figli che gli volevano bene anche se non lo capivano. Caparbio. Testone. Fuori dal mondo. E forse anche un po’ fuori di testa.
Quando andavo a trovarlo mi sedevo sul sofà di ferro battuto con le molle sgangherate.  Cigolanti. E respiravo l’amore. Semplicemente. Dalle cose intorno. Dall’aria. Da un pulviscolo di ori dentro i raggi del sole tardivo – in ottobre –  che si allunga sul pavimento di cotto inanellato di trucioli biondi.
Senza inutili parole. Sorridendo. Continuava tranquillo a intagliare gli zoccoli. Mio zio Tonin.

(Racconto estratto dal libro PAESE DELL’ANIMA, edizioni Zedde, Torino 2009)

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