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10 da fermo

10 da fermo

96012 Avola (SR)
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10 da fermo

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Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!
“… grida, cross, Martellini, rigore, goal, testa, Rossi, rete, uno a zero, lacrime, falli, pipa, finte, lacrime … Pertini, Oriali sempre a terra, Bearzot, colpi di testa, il grido di Tardelli, due a zero, Altobelli, finta e rete, tre a zero, gioia, la gioia…”
La Germania, chi si ricorda dei Tedeschi! Quel ragazzino con i pantaloncini verdi e la canotta bianco e rossa, l’uomo vestito di nero che alza il pallone. Tre fischi, il ragazzino con le lacrime di gioia…
… Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!
Zoff che alza la coppa del mondo!
… Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!”
– Ciao Fermo!
– Ciao Matteo!
Io e Matteo non ci parlavamo da tre anni. Quell’estate, l’estate dell’82, era un’estate di cambiamenti, di novità. Avevo finito le scuole medie e mi accingevo a cambiare scuola, nuovi compagni e tutto quello che ciò comportava. Il bambino Fermo era diventato un ragazzino.
Matteo ed io non ci parlavamo da tre anni!
Ogni fine ha un inizio e l’inizio non è altro che la fine di un altro inizio.
Per me quell’incontro era l’inizio di un nuovo modo di vedere le cose. La fine della rabbia accumulata in quei tre anni. Dovevo, volevo mettere da parte l’orgoglio.
– Ciao Fermo!
– Ciao Matteo!
Fermo, voi penserete che cazzo di nome è? Infatti non è propriamente un nome, ma un nomignolo regalatomi da Matteo. Fermo perché, a dirla tutta, erano gli altri a rimanere fermi davanti alle mie finte, davanti ai miei dribbling e i difensori avversari a corrermi dietro al grido: Fermalo! Fermalo!
– Senti Fermo, non voglio parlarti di quello che è successo tra noi, cancelliamolo! Io l’ho già fatto. Sono venuto a cercarti perché stanno mettendo su una squadra, una vera squadra di calcio. Io e tutti gli altri ragazzi vogliamo che tu ne faccia parte.
– Che tipo di squadra? – Risposi con apparente distacco.
– Una selezione dei migliori giocatori del paese. Ragazzini di età compresa tra i dodici e i quindici anni. I dirigenti dell’Avolese Calcio stanno facendo delle selezioni e noi tutti parteciperemo. – Tutti chi? – Domandai sempre più interessato.
– C’è Turi Nanè, Ianu Pileddu, ‘u Sbileticu, Panifrescu, Franco a ruspa e altri.
Quei nomi risvegliavano in me ricordi meravigliosi. Ricordi di vittorie, sconfitte, gioie e dolori condivisi con quella squadra, u Cianu, la squadra del nostro quartiere.
– E dove sono queste selezioni?
Cominciavo a partecipare all’entusiasmo di Matteo.
– Sabato alle 10.00, al campo comunale, sai dove gioca l’Avola? – Rispose Matteo. – Il sogno di giocare in una vera squadra, in un vero campo di calcio, con le porte, le reti, le linee che delimitano il campo. Il nostro sogno. La nostra squadra, che ha sfidato e vinto in tutti i quartieri di Avola non sarebbe stata così forte se non ci fossi stato tu, per cui ci sembrava giusto farti partecipe di questo sogno. – Matteo non finiva più.
– Lasciamo da parte la rabbia e il rancore. – Continuava Matteo.
Il calcio, cazzo! Il calcio unisce e questo lo sapevo bene, l’ho sempre saputo. Dopo il litigio con Matteo e gli altri, ero rimasto da solo. Il pallone. Il pallone era il mio migliore amico, il solo e unico amico. L’unico a cui non dovevo dare delle risposte, il solo che non faceva domande. Comunicavo con il mio sinistro. Quel piede che socializzava più delle parole. Il mio sinistro che qualche anno più avanti mi avrebbe tradito, faceva amicizia con tutti. Il mio passe-partout per il resto del mondo. In quei tre anni avevo giocato in altri quartieri e, a undici anni giocare in altri quartieri non era così facile. C’era una sorta di diffidenza iniziale che, a suon di goals, avevo trasformato in ammirazione nei miei confronti. Ero diventato popolare tra i miei coetanei e la mia fama era tornata come un boomerang nel mio vecchio quartiere. Forse anche per questo Matteo mi aveva cercato, per farmi inserire in quei giovani dell’Avolese Calcio. Quasi un dimostrarmi di essere orgoglioso della mia fama, d’altronde Matteo, in un certo senso, mi aveva scoperto come calciatore. Matteo aveva intuito il potenziale di quel piccolo ragazzino di poche parole e, da grande capitano che è sempre stato, e lo è tuttora, nel giorno della finale nel campo di Pantanello, mi aveva consegnato la sua maglia. La numero 10. La numero 10 e la fascia di capitano. La sua maglia e la sua fascia. In quella finale, nell’estate del 1979, nella mia ultima partita con i miei compagni: Turi Nanè, u Pileddu, Franco a ruspa, u Sbileticu, Panifrescu, Iano Stiddina in porta e Matteo in panchina, segnai tre reti. In quella porta con le pietre che sostituivano i pali, con le linee di nastro segnaletico che delimitavano il campo, segnai i miei ultimi goal nella mia squadra. Risultato finale 4 a 3. Vincemmo il torneo. L’altra rete la segnò Turi Nanè. Ciano 4, Real Strada Vecchia 3. Per la prima volta battemmo la Strada Vecchia della coppia d’attacco Iano Presti (lo zio); Iano Palanca (il nipote). Fermo, capocannoniere del torneo e miglior giocatore. Ho ancora conservata la medaglia di capocannoniere. Ero un 10 e non solo in campo. Ero un 10 nella testa, un 10 nel cuore, ero nato numero 10, ma ancora non lo sapevo. Poi un po’ in là con gli anni ho scoperto che essere numero 10 è uno stato d’animo, un modo di vivere, un numero che hai tatuato sulla pelle e nessuna maglia con un altro numero può nasconderlo. Anche Bruno Conti, il mio idolo di allora, era un numero 10 pur non portandolo, così come George Best, Cruiff, Senna, Borg, quel calciatore del Vicenza che è diventato uno scrittore eccellente e poi ancora De Andrè, Kurt Cobain, Lou Reed e Druku Lebosky. A quella selezione partecipai conquistando il posto di titolare di quella squadra: ala sinistra. Segnai solo tre goal in tutto il torneo. Quell’esperienza mi ha lasciato solo il rimpianto delle partitelle nella strada con la mia vecchia squadra. La nostalgia dei dribbling sull’asfalto. Dei pali fatti con le pietre. Le partite dove non c’erano i centrocampisti, niente schemi, non bisognava rincorrere i terzini avversari, niente di tutto questo. Per me il gioco del calcio non era più un divertimento. Tre difensori, tre attaccanti, un portiere, niente centrocampisti. Dove cazzo erano allora i centrocampisti? E le partite infinite, finite sempre a metà. Quello era il mio calcio. Il gioco del pallone. Anche se dopo il primo torneo con i giovanissimi dell’Avolese ho vinto tanti campionati locali e provinciali, ho segnato un mare di goal, ho avuto molti riconoscimenti e coppe, medaglie, applausi, abbracci, l’esordio in prima squadra, insomma, potevo, dovevo essere felice di quel successo. Potevo ma non lo ero. Perché il gioco del pallone era finito qualche anno prima, in quella finale tra u Ciano e Real Strada Vecchia. E quella medaglia vinta in quel torneo vale, ancora oggi, più di qualsiasi altra vittoria successiva. Cavolo, le piccole cose, fanno grande la nostra vita. Solo le piccole e semplici cose. Gli schemi non facevano per me e men che meno inseguire i terzini avversari. I sogni, come tutti i sogni, forse è meglio lasciarli nei cassetti. Giocare in una vera squadra non era poi stata una bella cosa.
Ogni inizio ha una fine e la fine è soltanto l’inizio di un’altra fine.
A venti anni, in un pomeriggio di febbraio, finii di giocare. In una partita tra scapoli e ammogliati subii un grave incidente. La rottura dei legamenti del ginocchio sinistro. Il mio piede. Mi aveva tradito proprio il mio sinistro. Intorno tutto il buio del mondo. 21 marzo, numero letto 21, anni 21, punti al ginocchio 21. Può sembrare inventato ma è tutto vero. Terapie, visite mediche, riabilitazione, allenamenti, dolore. Dottore, voglio solo cominciare… tornare a camminare senza ‘ste cazzo di stampelle. Da quel giorno ho dato un calcio al calcio giocato. Però il numero 10 lo portavo ancora, anche se non ne ero consapevole.
10 è rifiutarsi di battere un rigore contro l’ex squadra. 10 è sbagliare un rigore nella finale dei campionati del mondo. 10 è Baggio che, nella sua carriera avrà sbagliato cinque o sei rigori e, uno di questi ha scelto di sbagliarlo nel momento più alto della sua carriera. Quel rigore sbagliato, nella finale dei mondiali del 1994, lo ha reso più umano, lo ha reso un vero numero 10 come quel vaffanculo a Sacchi negli stessi mondiali. Baggio è diventato il mio idolo nel momento esatto in cui è entrato a far parte del mondo del calcio. Con Baggio ho scoperto il significato di vivere da 10. Si può essere 10 anche da fermo, nel lavoro, negli amori, nelle amicizie, in quello che fai, in come lo fai, in quello che sei. 10 è una voce fuori dal coro. Un solista in una squadra. Uno che fa delle scelte contro tutto e contro tutti. 10 è un treno in autostrada.
Oggi, a 37 anni, ho scoperto di aver vissuto sempre da numero 10. Dopo l’incidente al ginocchio, sono diventato un 10 da fermo. Nel mio lavoro, adesso faccio il grafico, ho messo a disposizione il mio essere fantasista. Nell’amore, amo, ho amato e amerò incondizionatamente. Nell’amore non inseguo e non voglio essere inseguito, amo fregandomene del risultato finale, uscendo fuori dagli schemi. Il numero 10 ama la bella giocata, senza pensare al risultato finale e io ho perso tante di quelle partite con le donne, anche se tutte mi rimpiangono indicandomi come l’uomo che avrebbero dovuto sposare. Un po’ come Baggio a fine carriera: tutti lo volevano ma nessuno lo prendeva. Essere 10 è gioia e dolore. Vivere da 10 non è vivere in maniera banale. Vivere da 10 è vincere anche nelle sconfitte.
Maradona è un 10 in tutto e per tutto. 10 è Del Piero che si alza dalla panchina, segna e la partita dopo, si riaccomoda in panchina e il suo silenzio spacca i timpani. 10 è Cassano che, dopo la gioia del goal agli europei piange, perché non ci siamo qualificati. 10 è Paolo Maldini, perché la classe non è acqua. 10 è Totti che è rimasto a Roma e perché ha sputato a Polsen, o come cazzo si chiama. Diciamola tutta: Polsen ci avevi rotto le palle fin dal 1° minuto. Grande Totti! E poi ci sono i 10 da fermo, che non sanno di esserlo e chissà se sono mai scesi in un campo di calcio e forse non hanno calciato mai un pallone. Pasolini era un 10 da fermo, per tutto ciò che diceva e per come lo diceva. Gino Strada è un 10 da fermo, perché ci fa sentire tutti degli stopper. 10 da fermo è quel signore piccolo piccolo che incontro tutte le mattine con in braccio il figlio disabile. 10 da fermo è il professor Bartleboom che cerca tutta la vita dove finisce il mare. Turi Drago è un 10 da fermo perché si mette sempre in gioco. Nino, che ha messo il cuore dentro alle scarpe e ha corso più veloce del vento è un 10 da fermo. 10 da fermo è Haffè, perché non ha certezze ma ha la forza per andare avanti. Anche Lighea è un 10 da fermo che è riuscita a risalire dopo una brutta caduta. Neve è un 10 da fermo perché ha sempre un sorriso per tutti, anche nei momenti più tristi. Pigna è un altro 10 da fermo che con il suo amore da forza a Mizia. 10 da fermo è Mizia perché è fragilmente forte e l’amore per Pigna è più grande di quanto lei stessa immagini. Klarissa, 9 anni, è già un 10 da fermo perché, quando ha visto per la prima volta suo padre, un mese fa, gli ha detto: tu non sei mio padre, mio padre è mio nonno, che mi accompagna tutti i giorni a scuola! 10 da fermo è Rimmel che mi ha fatto capire cos’è l’amore, che mi ha fatto gioire e soffrire con la stessa intensità. 10 da fermo è Fragolina per quello che scrive e che scriverà e perché, a piccole dosi, mi ha fatto sentire padre. 10 da fermo era, è e sarà sempre mio padre, il più grande numero 10 con cui abbia mai giocato. Mio padre, che mi ha insegnato un po’ di tempo fa, che i numeri 10 non hanno bisogno degli altri, ma sono gli altri che hanno bisogno dei numeri 10. 10 da fermo è questo Campari che sto bevendo, adesso.
Vivere da 10, anche da fermo, è vivere intensamente ogni minuto fino al 90°, fino a quando un giorno, un giorno come gli altri, un signore vestito di nero con i capelli tirati indietro, si porterà il fischietto in bocca, lo sguardo fisso al polso, dentro le lancette dell’orologio, alzerà lo sguardo verso il pubblico, prenderà il pallone, lo alzerà e fischierà tre volte…

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