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PASO

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Corso Garibaldi Traversa XI 11
96012 Avola (SR)
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PASO

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Quando sono morto pioveva e tirava vento. Un vento caldo e un acquazzone tipico da fine estate.
Acqua sotto, acqua sopra, per gli ultimi temerari che si aggrappano all’estate, anche se ormai è quasi finita. Non vogliono lasciarla andar via. Sono lì a tuffarsi tra le onde di un mare grigio, mentre piove a secchiate.
Acqua sopra, acqua sotto.
In verità non sono morto. Questo è quello che forse tutti credono o pensano. Dopo circa tre settimane nessuno, a parte mia moglie, sa perché sia sparito.
Sono passati ventuno giorni, dalla mia, chiamiamola scomparsa, fuga, rincorsa.
Il perché e il dove nessuno conosce, ma adesso provo a raccontarlo in queste pagine.
Ci provo.
Patti, Jacopo Patti. Il signor Jacopo Patti è desiderato al gate 12. Volo in partenza. Ultima chiamata per il signor Patti.
Presentarsi immediatamente al gate 12 per l’imbarco.
Patti, Jacopo Patti.
Gate 12.
Imbarco…
Urgente…
 
Non mi presentai, quel giorno al gate 12. Volo 1221.
Non mi presentai né lì né in nessun luogo.
Né allora, né mai.
Scomparso, dissolto. Niente di niente. Nulla assoluto.
Bianco su bianco, nero su nero.
Pluuffff.
Sparito!
Il perché è uguale al dove.
Nessuno sa perché sia sparito, così come nessuno sa dove sia adesso.
Nessuno tranne me, mia moglie e voi che arriverete alla fine di questa storia.
Persi quel volo, volutamente. Doveva portarmi a  Bologna, quel volo.
Un viaggio di lavoro. Niente di che.
Perché ho deciso di raccontarvi questa storia?
Perché… a dire il vero una risposta non c’è. Non c’è un perché o forse le risposte e i perché sono tanti. Forse, perché gli uomini raccontano storie. Tutti abbiamo una storia da raccontare. Fin da bambini, come accade dalle mie parti, i vecchi al centro e i bambini tutti intorno ad ascoltare.
– Nannu mu cunti n ‘cuntu? – e, il nonno iniziava.
Tutti abbiamo una storia da raccontare, tutti vogliamo una storia da ascoltare. Tutti vorremmo esserne protagonisti.
Ci vuole poco, basta poco.
Un bambino, una bambina, un figlio, una figlia, nipoti, sorelle, fratelli, amici, donne, uomini, grandi e vecchi, insomma qualcuno che racconti e qualcuno che ascolti.
Una storia, che duri il tempo che durerà. 5 minuti, il tempo di un caffè, di una sigaretta o una vita intera. Non serve altro.
Una storia, qualcuno che l’ascolti e un posto dove morire in pace.
Nella vita non serve altro.
Forse il fatto è soltanto che questa storia è la mia e vorrei raccontarmela e ascoltarla.
Questa storia potrebbe iniziare quando sono nato, ma voglio iniziare da oggi che, per certi aspetti, sono morto.
– Ascolti, Paso è un paziente per certi aspetti unico. Non si ribella, non grida, non eccede in nulla. Scrive continuamente. È questo che fa. Scrive, spesso in maniera indecifrabile. Per il resto è molto tranquillo. È qui da dieci anni e non ci ha mai creato nessun problema. Prima leggeva tanto e scriveva. Da un po’ ha smesso di leggere. Adesso scrive. Paso scrive e non la smette più. Non gli bastano i fogli? Nessun problema. Ha cominciato a scrivere sul pavimento, sui muri.–
Il medico continua raccontandomi quello che Paso gli disse quella volta che gli erano stati tolti i fogli: – Quel signore con il camice verde, quello che mi ha rubato i fogli. Lui pensa che così non scriva più. Si sbaglia io scrivo sui muri, sul pavimento, dove voglio. Io scrivo lo stesso. Tutte le mattine, cancella quello che scrivo sul pavimento. Io non mi arrabbio. Lo guardo, sorrido. Lui mi grida qualcosa addosso ed io continuo a sorridere. Tanto appena va via ricomincio a scrivere: sul pavimento, sul muro, sulle lenzuola, sulla pelle.– Questa è stata la cosa più eclatante che ha fatto. A lui basta una penna e un foglio. La penna è la sua chiave per entrare ed uscire dal suo mondo, i fogli bianchi da riempire, la strada da percorrere.
Il medico giovane era stranito che io fossi lì adesso. Solo adesso. Lì a chiedere informazioni sullo stato di salute del suo paziente. Perché adesso? Perché solo adesso? In dieci anni ero stata l’unica persona che era andata a trovare o chiedere delle informazioni su Paso.
…qualche giorno prima
di ventuno giorni fa
Mamma, mamma dove sei?
Mia madre era a casa ma non in cucina, seduta eternamente sulla sua poltrona. Era in camera da letto e stava cercando qualcosa. Ero passato a trovarla anche perché da lì a poco sarei partito per Bologna.
– Mamma, che fai qui sopra? Cosa stai cercando? Dai, scendiamo giù.
– Sto cercando una scatola. La scatola con tutte le foto.
– Mamma, le foto le ho io a casa. Le ho messe in un album, non ricordi?
– No, Jacopo. Ci deve essere una scatola con altre foto di quando ero giovane e delle lettere. Ero bella, sai. Non immagini quanti ragazzi mi venivano dietro. Il nonno era geloso, mio Dio com’era geloso e protettivo. – Gli occhi di mia madre sorridevano e volavano via alla ricerca di quegli anni in bianco e nero.
– Magari questa scatola sarà in soffitta. – cercavo di rincuorarla.
– Sì, forse hai ragione, sarà sicuramente in soffitta. – Con lieve affanno rispose.
Mia mamma sempre uguale, stessa ruga di mille anni fa. Sempre uguale, sempre la stessa. Occhi al cielo e poche parole. Un’intera vita a cercare risposte senza porsi domande. Se mi guardo attentamente, dentro ad uno specchio, vedo lei.
– Dai! Scendiamo in cucina. Dopo vado a cercare la scatola con le foto.
– Sì, gioia, grazie.
L’ho trovata, quella scatola. Ho visto le foto e letto le lettere. Sono morto e sono rinato. Sono pieno di rabbia e vuoto. Incazzato nero e impallidito. Sono fiele e dolce. Sono confuso e ho tutto chiaro, adesso.
Mi ha detto tutto. Mia madre, mi ha detto tutto.
Non voleva più fuggire dalla verità. Dirmi tutto oggi. Aveva deciso così.
Perché quel giorno, perché? Perché raccontarmi tutto? Perché non tacere? Perché non prima? Perché adesso? Perché, perché, perché. Taci, non voglio sentire niente. Raccontami tutto, perché non l’hai fatto prima…? Perché oggi, perché ora?
Perché solo adesso?
Il nonno non voleva.
Potrebbe essere il titolo della storia che mia madre mi ha raccontato. La storia che io non conoscevo fino a poco tempo fa.
Il nonno non voleva.
Il nonno, che io chiamavo papà grande. Il nonno che mi spiegava come vivere, come stare al mondo, adesso, che so la verità, mi ha ucciso.
Il nonno che mi lanciava in alto, mi faceva volare. Io non avevo paura perché sapevo che le sue braccia mi avrebbero salvato prima di spiaccicarmi sul pavimento. Ora sono faccia a terra su quel pavimento freddo.
Il nonno non voleva. Mia madre piangeva.
Mio nonno che ogni sera, prima di portarmi a letto mi prendeva e mi faceva sedere sopra la sua gamba sinistra e diceva: – Jacopo, stasira ti cuntu n’cuntu.
Ed ero il bimbo più felice del mondo perché era il nostro momento. Il momento tra me e lui. Era solo nostro. Lui era mio papà grande e quello piccolo non c’era più. Se in quel momento avessi dovuto fare una scelta, non avrei avuto dubbi. Papà grande avrebbe stravinto. Papà piccolo non avrebbe saputo inventare le storie come quelle che raccontava papà grande. Peccato che la storia più bella o più brutta la conosco solo adesso. E in questa storia non c’è nulla di inventato. In questa storia il papà grande è il cattivo e quello piccolo la vittima. E adesso questa storia la rubo e le cambio il finale. Nella mia storia metto tutto al proprio posto. Il papà grande diventa “il nonno che non voleva” e il papà piccolo diventa mio padre. Quel padre che fino a poco fa sapevo morto.
Alcuni dicono che ci sono storie che hanno letto o sentito che hanno cambiato loro la vita. La storia che mi ha raccontato mia madre, me l’ha cambiata davvero. Mi guardavo attorno e non mi fidavo di nessuno. Mi sentivo tradito dalle persone che più amavo e avevo amato, fino ad allora. Nascondere per quaranta anni l’esistenza di un padre è atroce, infinitamente atroce. Ho la sensazione di essermi trovato nel sogno lucido che io non ho scelto. Protetto da tutti. Solo che quella protezione, l’affetto oggi è gabbia, l’amore prigione. Le prospettive sono cambiate. L’amore è una scatola colma di rabbia. Alimenti l’amore per le persone, come si alimenta un treno a vapore, non smetti di caricare carbone per tenere alte le fiamme… non puoi fermarti, non vuoi fermarti. È una gran fatica l’amore. Poi basta una secchiata d’acqua gelata e tutto va in fumo. Ore, giorni, anni di lavoro per mantenere alte le fiamme e poi basta una secchiata d’acqua gelida e tutto si spegne. Tutto finisce. La cosa più triste è che le mani di quel secchio d’acqua gelata sono le mani di mio nonno. È così che mi sento. Un treno a vapore fermo in un binario morto. Algido. Distaccato da tutto e da tutti. Solo in questa cazzo di stazione insieme ad altri vagoni che non riconosco più.
Mio padre non è morto. Anche se, fino ad oggi me lo hanno fatto credere. Il nonno non voleva. È questo che mi fa più male. Il nonno, che mi ha reso il bimbo più felice al mondo, dopo quaranta anni mi ha lasciato in eredità il suo cognome e una tristezza così grande che il mio cuore non potrà contenere. Mi ha reso un bimbo felice ed un uomo infelice. Un treno in autostrada. Fuori luogo. Fuori posto. Così sono adesso. Così mi sento.
– Mamma, perché mi dici questo? Perché solo adesso?
– Non ce la faccio più a tenere questo segreto. La notte non dormo. Da una vita non dormo. Un solo pensiero. Mi sta distruggendo. Tuo padre è vivo. Da molti anni però non ho più notizie di lui. Ha fatto una brutta fine, almeno stando a quel che so. Tuttavia, credo che sia ancora vivo.
– Perché mi avete detto che era morto? Perché farmi credere che fosse morto?
Quanti palloncini ho mandato in cielo perché lì c’era il papà piccolo! Quando ti chiedevo dove andavano a finire i palloncini che scappavano dalle mani dei bambini, tu mi rispondevi che andavano a trovare le persone che erano volate in paradiso. Lì, dov’era papà. Quanti palloncini ho fatto scappare dalle mani, inseguendoli con lo sguardo fino a vederli sparire e pensando, nel mio piccolo mondo di favole, che quei palloncini lo portassero giù. Quanti!
– Perché non mi ha cercato?
– Lui non sa della tua esistenza.
Se fosse un film, adesso entrerebbe in scena il suono di note lontane di un pianoforte o “Trouble” dei Coldplay. Ma non è un film. È tutto reale. E nella realtà il silenzio è lama che taglia tutte le parole. Unghie su lavagna. Le mille domande, i mille perché. Le sue risposte inutili ed ingiustificabili. Niente ha senso adesso. La verità è che, in questa storia, i carnefici erano i buoni, le vittime solo due. Io e mio padre.
Non odio mia madre. Non odio mio nonno. Non odio nessuno.
Ma perché, perché…
Mia mamma, con ovvie lacrime. La foto in mano di quel ragazzo con i capelli lunghi e il sorriso negli occhi. Quel ragazzo che dovrebbe essere mio padre.
Mia madre, occhi umidi, inizia a raccontarmi la sua storia con Paride. Paride è il nome di mio padre. La sola verità non nascosta. Il resto era tutto inventato. La storia dell’incidente sul posto di lavoro in Germania. Un immigrato che era morto per darci da mangiare. Questo il ritratto che mi hanno fatto di Paride. Tutto perfetto. Morto, quando la mamma era ancora incinta. Perfetto. Tutto perfetto, tranne il rimorso di mia madre che torna a galla solo adesso.
La loro storia d’amore, adesso è la mia storia. Inizia così la mia nuova vita dalle parole di mia madre.
“Era Dicembre. Dicembre, sono sicura. Dicembre del ‘68. Io avevo venti anni ed ero una ragazza semplice. Come gran parte delle ragazze di allora, andavo a scuola di sartoria “a mascia”. Quegli anni erano anni di contestazione giovanile e Avola fu invasa da tanti studenti venuti anche dal nord per appoggiare le urla dei braccianti. Un pomeriggio, mentre io e le altre ragazze tornavamo dalla “mascia”, abbiamo incrociato un gruppo di questi ragazzi e ci siamo fermate a parlare. In quel gruppo c’era Paride. Ci siamo piaciuti subito. Ci siamo rivisti quasi ogni giorno. Stessa ora, stesso posto. Naturalmente di nascosto dal nonno. Qualche giorno dopo la tragedia dei “Fatti di Avola” lui è ripartito.
Le cartoline e le lettere erano l’unico legame. Eravamo innamorati, come possono essere due ragazzi che vivono a centinaia d chilometri di distanza. Forse l’idea del nostro amore era più grande dell’amore stesso. Forse. L’estate successiva è tornato ad Avola perché volevamo incontrarci. Volevamo dar forma alle infinite parole scritte su quelle lettere. Ci vedevamo di nascosto dal nonno e quel senso di proibito ci legava molto di più. Eravamo felici. Ero felice. Era felice. Ci siamo amati e continuavamo ad amarci. Quegli incontri segreti erano eterni. Sei figlio di un incontro segreto, eterno. Poi il nonno ha scoperto tutto e il tutto è finito. Non voleva che incontrassi quel “capellone”, come lo chiamava lui. “Quello è un mangiapane a tradimento”. Mi diceva. Paride è ripartito qualche giorno dopo e con lui è andato via il nostro amore. Forse il nonno non aveva tutti i torti. Da lì a poco ho scoperto che stavo diventando mamma. Tutta la mia vita è cambiata. Volevo in qualche modo avvisare Paride. Mi mancava il coraggio o forse era la paura di un suo silenzio che mi ha bloccato o semplicemente vigliaccheria. Il nonno non voleva perché di quel ragazzo non si fidava. Così ha pensato a tutto lui. Anche a darti un nome. Paride aveva la sua vita ed io ero solo una delle sue tante avventure.
Viveva a Perugia. Era iscritto all’università, adesso non ricordo cosa studiasse. Era un ribelle e come gran parte dei ragazzi di quegli anni, voleva cambiare il mondo. Solo che, come capita spesso, il mondo ha cambiato la sua vita. Il nonno si è preso cura di noi decidendo di raccontarti la favola del papà che era andato in paradiso. Quando, la prima volta, mi hai chiesto dove andavano i palloncini che volavano in cielo ed io ti ho risposto che andavano a trovare gli angeli in paradiso, gli angeli come tuo papà, lì, per la prima volta ho cercato di rintracciare tuo padre. Ho fatto delle ricerche e ho scoperto che era stato arrestato perché sospettato di far parte delle brigate rosse. Gli ho spedito un paio di lettere mentre era lì. Non ho avuto risposte. Forse quelle lettere non gli sono state consegnate. Chissà. Gli avevo parlato di te, in quelle lettere. Dopo non l’ho più cercato. Per vigliaccheria, per paura, non so. Perdonami.
Perdonami.
Certo mamma, ti perdono. La verità, mamma, la verità. Perché non mi hai detto la verità?
Perdonami.
Certo, ti perdono nonno. La verità, nonno, la verità. Perché non mi hai detto la verità?
Sono uscito da quella casa. Quella casa piena di ricordi che adesso vorrei cancellare o meglio vorrei scavare in quei ricordi di giorni felici per percepire qualche particolare allora sfuggitomi.
Sono uscito e, guardando mia madre, con occhi spenti, le ho detto: – Mio padre è vivo e me lo vado a prendere.
Così sono uscito con un unico pensiero in testa. Mio padre è vivo e adesso voglio trovarlo, voglio andare a riprendermi quei palloncini.
C’era caldo quel pomeriggio. Caldo come tutti i pomeriggi d’estate ad Avola. C’era caldo e pioveva. Un acquazzone di fine estate.
Morto. Mi sentivo morto ed ero vivo. Ero vivo e mi sentivo morto. Confuso, svuotato, pieno di vita. Volevo urlare, tagliare a fette il tempo. Tornare bambino, invecchiare. Volevo sapere e non sapere. Una sola cosa avevo chiara in mente: ritrovare mio padre. Sicuramente non avrei recuperato gli anni passati. Mi sentivo derubato di momenti con lui: calci ad un pallone; imparare a portare la bicicletta; castelli di sabbia; la prima pagella; l’ultimo esame; la prima puntura; il bacio della buonanotte; le partite a carte. Potrei continuare all’infinito. Ci vorrebbe una vita. E adesso la vita aveva un debito con me e Paride: a ognuno di noi due aveva rubato qualcosa. A lui un figlio. A me un padre. Toccava a me cercare di recuperare il torto subìto. Io ero l’unico dei due che conoscesse la verità. Toccava a me, mettere i tasselli al proprio posto.
– Dottore, Paso è mio padre. Dopo quaranta anni ho scoperto che mio padre è vivo.
Colui che non smette di scrivere e che lei chiama Paso è mio padre da cinque minuti. Le poche cose che so di lui le sto scoprendo adesso dalle sue parole.
Il dottore giovane stupito da ciò che pochi attimi prima aveva sentito, replica secco:
– Cazzo!
– Minchia, dalle mie parti diciamo minchia! – rispondo, con la gola secca.
– Perché, Paso? – continuavo, con aghi in gola. – La prima volta, quando ci siamo incontrati, gli ho chiesto se potevo fare qualcosa per lui. Paso ha detto che voleva leggere qualcosa, qualunque cosa e poi voleva una penna e della carta. L’ho accontentato: gli ho dato carta e penna e un libro che stavo leggendo in quel momento, “Ragazzi di vita” di Pasolini. Da quel giorno ha iniziato a cercarmi tutto quello che potevo procurargli su Pasolini e lo ha divorato, digerito, vomitato sui fogli di carta. Paso, da Pasolini. Qui tutti lo chiamano così.
 
Siamo usciti dallo studio e ci siamo diretti da Paso.
Da appena pochi minuti avevo notizie fresche su mio padre e già ne ero affascinato. Pazzo per Pasolini. Fare dell’ironia sul fatto che mio padre sia pazzo per uno scrittore e allo stesso tempo viva da dieci anni in questo posto è stupido, scusate, non trovo altri aggettivi inutili per sprecare energie e pensare ad un aggettivo più intelligente di stupido.
Lui non è così vecchio come sembra. Dimostra almeno tremila giorni in più della sua vera età e non ricorda nemmeno da quanto tempo è qui.
Ricorda.
Forse nel suo mondo il verbo ricordare ha perso il suo vero significato. Il suo essere verbo di memoria passata. Probabilmente, anche altri verbi che hanno a che fare con il tempo, presente, passato o futuro, per lui hanno valore pari al nulla infinito. Al blu cobalto. Un blu intenso dove ti puoi perdere.
Lui è Paso. Mio padre. Paso, mio padre da cinque minuti. Lui è mio padre ed io sono il suo tempo perduto. Il suo blu cobalto. Il tempo perduto dentro un angolo della sua mente che nessuno riesce a tirar fuori.
Seduto su una sedia con gli occhi chissà dove. Una stanza tre metri per due. In un edificio, insieme a persone che non ha scelto, che non l’hanno scelto. Persone a cui non interessa la storia degli altri. Non ascoltano. Forse, è per questo che non smette di scrivere. Per farsi ascoltare. Per sentirsi vivo.
Questo è quello che mi ha detto il medico quando gli ho chiesto del suo stato di salute. Com’è finito in questo posto? 10 anni qui. Senza qualcuno che lo venga a cercare. Nessun contatto. Sicuramente, per tutti coloro che lo hanno conosciuto, è solo un argomento da passato remoto.
Il medico giovane conosce poco della sua storia. Di sicuro gli anni di galera hanno trasformato la sua vita ed è lì dentro che ha cominciato ad avere disturbi. Ha passato quasi 5 anni dentro e poi si è scoperto che era innocente. Non c’entrava niente con le brigate rosse. Era solo un ribelle che protestava contro il sistema ed era sempre in prima linea nei cortei dei manifestanti. Questa è stata la sua colpa. Sognare una vita diversa. L’utopia, la sua fine. Da quel carcere Paride è uscito a pezzi. La delusione e il mal di vivere lo hanno portato all’autodistruzione. L’eroina e gli acidi hanno fatto il resto, trovando vita facile nella mente di una persona fragile e delusa.
L’uomo seduto di fronte a me è Paso. Non è così vecchio come sembra. Non è il papà che sognavo da bambino. Ma adesso non conta niente quello che sognavo io. È vivo e non lo cambio con nessuno. Neanche con il papà grande.
Ha gli occhi puntati sul pavimento. Non li ha nemmeno alzati quando siamo entrati. Non li alza neanche adesso. Il medico lo ha salutato e gli ha detto che c’era una persona che voleva vederlo. Niente. Come se non avesse ascoltato. Nessun movimento. Sguardo fisso sul pavimento. Occhi sulla mattonella.
– Ciao – Provo io. Silenzio. Occhi fissi sulla mattonella.
Il medico mi dice che da un po’ non esce fuori e non parla quasi mai. Mormora qualcosa sporadicamente.
Cerca di attirare l’attenzione e lo chiama. – Paso, dai, usciamo fuori, c’è una bella giornata. Ti ho portato dei fogli e la penna. Usciamo. Andiamo in giardino.–
Alza gli occhi e il medico gli mette in mano la penna.
Lo guardo. Mi guarda. Uguale, lo sguardo è lo stesso. Il taglio degli occhi, identico. Sono i miei occhi tra venti anni. Sono i suoi occhi venti anni prima. Si alza lentamente e ci segue, fuori da quella stanza. Fuori. Usciamo fuori. In giardino ci sono gli altri. Altri come lui. Soli nel loro mondo. Solo questo li lega. Il posto e il loro mondo. Non hanno scelto di vivere insieme ed insieme non lo sono, non lo sono per niente. Sono uniti sola–mente.
Ci sediamo su una panchina. Tre persone diverse. Fino a qualche tempo fa niente in comune. Tre sconosciuti su una panchina. Un medico, un quarantenne qualunque, un anziano che scrive. Il medico si alza andando incontro ad un altro paziente. Io osservo Paso che non smette di scrivere. Cosa mi ha portato qui adesso, su questa panchina, vicino ad una persona con cui non ho nessun legame. Ok, il tipo che scrive è mio padre. Ma non si può provare qualcosa per una persona che hai appena conosciuto, anche se si tratta di tuo padre. Abbiamo storie diverse. Cosa ci lega. Che cazzo ci faccio qui? Sarà stata la curiosità o la rabbia a portarmi adesso qui seduto. O, forse, è qualcosa che abbiamo dentro che ci porta a legarci ai nostri cari. Effetto calamita. Anche se non abbiamo vissuto e condiviso nemmeno un istante, sono seduto qui fianco a fianco con quest’uomo che non conosco. Effetto calamita. Non riesco a staccarmi. Vorrei non aver mai scoperto questa amara verità e allo stesso tempo voglio sapere tutto di lui. È tutto così complicato. Capita che la vita ti travolge come un uragano e ti spettina i pensieri. Così mi sento adesso. Confuso, come ricci spettinati. Pensieri ingarbugliati.
Cerco di sbirciare quello che scrive.
“Il giorno dell’addio lo deciderà solo Dio”.
Paso è un grande. Ad intermittenza, ma è un grande. Il medico torna. Gli chiedo se è possibile vedere le cose che scrive Paso. Il medico a malincuore risponde che Paso spesso quello che scrive lo cancella o strappa i fogli.
– “Il giorno dell’addio lo deciderà solo Dio.” – ripeto la frase rubata dal foglio di Paso.
– Scusi? – risponde il medico.
– È una frase che ha scritto poco fa – replico.
Il medico, con una punta di amarezza, mi risponde: – Paso è una persona profonda. Di frasi del genere ne avrà scritte a centinaia. Da giovane doveva avere una gran fame di cultura. Peccato.
Le sue frasi sono come i miei palloncini. Volano via in cerca di qualcuno che li trovi e li riporti giù. Niente ritorna, niente. Quando capita, non è mai come si è sognato o come si desiderava che fosse. La realtà è una guancia su un pavimento freddo. Sale sopra la ferita. Polvere negli occhi.
Mio padre di fianco a me per la prima volta. Lo guardo. Tenerezza. Mi fa tenerezza. Solo questo, provo. Tenerezza.
– Dottore, se volessi potrei portarlo con me? – domanda secca. Pugno nello stomaco.
– Penso di sì, ma non dipende da me. Il primario può decidere. Le condizioni mentali di suo padre sono buone. Ha solo bisogno di attenzione. Tutto qui. Ma, dovrebbe decidere il primario. – il dottore mi risponde pacatamente e palesemente commosso.
Suo padre. Ha detto proprio così. Ovvio, mi fa uno strano effetto.
Suona bene: suo padre.
Non so se riuscirò a portarlo con me. Non so se sia giusto o sbagliato. Il primario deciderà il meglio, soprattutto per lui. Adesso, in questo giardino di menti vaganti, ho iniziato a scrivere, come mio padre. Scrivo e non la smetto più. Mi sono perso e poi ritrovato dentro gli occhi di Paso. Ho deciso di raccontare questa storia per dare una storia a mio padre, per raccontare una storia a mio figlio, che nascerà tra pochi mesi. Sarà la prima favola della buonanotte che gli racconterò. Sarà il primo bacio sulla fronte. Saranno i primi calci ad un pallone. Le prime corse in bicicletta. Sarà il primo castello di sabbia. La prima pagella. L’ultimo esame. La prima puntura. Le partite a carte. Il primo palloncino che volerà via.
Prenderò mio figlio sulla mia gamba sinistra e gli racconterò che i palloncini non vanno in paradiso a trovare gli angeli. Volano sempre più in alto e quando si fa buio luccicano insieme ad altri palloncini. I palloncini sono stelle cadenti.
Prenderò Paso, mio figlio.
Le sue gambe sulle mie spalle.
Insieme fuori, occhi al cielo a veder le stelle cadere…
…e questo spettacolo non voglio perderlo per niente al mondo.

 

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